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Nemesi da laboratorio: lo scandalo delle STAP stem cells
by Luca Marelli
7 April 2018

Nella recente intervista con Piero Carninci, direttore del centro di tecnologie genomiche dell’istituto Riken in Giappone, non poteva mancare un riferimento allo scandalo STAP del 2014 – le cui ripercussioni hanno portato a un passo dalla chiusura dello stesso Riken. Una storia che sembrava originariamente tratta da uno di quei bei romanzi di Murakami per concludersi invece, sulle prime pagine dei giornali scientifici di tutto il mondo, in una tragedia che ha colpito la giovane ricercatrice Haruko Obokata e il gruppo di colleghi che la affiancavano.

Andiamo con ordine. A gennaio 2014, in due articoli pubblicati su Nature – dopo che in precedenza la stessa rivista, al pari di Science e Cell, ne aveva rifiutato la pubblicazione, con referaggi financo sprezzanti (di “approccio magico” parlò addirittura un revisore) –, la giovane ricercatrice del Riken espone i risultati di un pioneristico lavoro che si proponeva di dimostrare come, dopo un breve trattamento a base di stress chimici, fosse possibile riprogrammare delle cellule somatiche murine in cellule pluripotenti. Una scoperta che si annunciava rivoluzionaria giacché, semplicemente immergendo le cellule in una soluzione acida, sarebbe stato possibile portare a compimento il processo di riprogrammazione, senza ricorrere ad alcun tipo di manipolazione genetica.

Accompagnata, nell’immediato, dall’entusiastica reazione degli addetti ai lavori, la pubblicazione dei due articoli sollevò tuttavia, ben presto, una serie di interrogativi e perplessità. In particolare, a seguito di un’iniziativa di crowdsourcing volta a verificare l’(ir)riproducibilità della tecnologia, lanciata da Paul Knoepfler (ricercatore a Stanford e animatore del seguitissimo blog ipscell.com), e delle denunce di manipolazione dei dati espresse su piattaforme online come Pubpeer e Retraction Watch, lo scandalo emerse in tutta la sua portata [1]. A fronte dell’accusa di aver fabbricato i dati manipolando le figure dei due articoli, e stante l’impossibilità per il gruppo di ricercatori di riprodurre la ricerca incriminata, i due articoli furono quindi ritrattatati da Nature (in seguito, un articolo dello stesso Carninci sul sequenziamento whole genome dei campioni incriminati dimostrerà, a fine 2015, come le cellule STAP non fossero altro che staminali embrionali di un’altra linea cellulare presente al Riken e finita non si sa come nelle piastre della Obokata). In Giappone, lo scandalo pubblico fu accompagnato da accesi dibattiti parlamentari e commissioni di inchiesta ministeriali – con un clamore mediatico di segno opposto a quello che, appena due anni prima, aveva accompagnato il conferimento del premio Nobel a Shinya Yamanaka per la scoperta delle iPSC.

«Una storia troppo bella per non metterla in prima pagina», commenta Carninci. «Per noi al Riken è stata una sorta di nemesi. La pubblicazione dei due articoli ha avuto un’eco mediatica incredibile in tutto il Giappone, e la cosa ci si è poi ritorsa contro in maniera violentissima. In televisione, dopo lo scoppio dello scandalo, parlavano di noi del Riken ogni giorno, insinuando storie di relazioni segrete, creando sospetti, penetrando nei nostri server di posta elettronica e diffondendo le nostre email... Quei ricercatori hanno perso la faccia, e per un giapponese perdere la faccia è perdere tanto, forse tutto…». 

Le scuse del Presidente del Riken, Ryoji Noyori, in una conferenza stampa a Tokyo, 1 aprile 2014 (asia.nikkei.com

Il riferimento è alla tragedia che ha colto Yoshiki Sasai – brillante scienziato del Riken, e senior author nel paper della Obokata – che fu trovato impiccato a seguito dello scandalo, lasciando a Obokata un foglietto di poche parole: «Be sure to reproduce STAP cells».

Una scelta estrema, difficilmente comprensibile alla luce della serietà e del prestigio del ricercatore – uno dei padri nobili della ricerca sulle staminali a livello mondiale –, nonché difficilmente accusabile di una responsabilità diretta nell’accaduto. Una scelta forse dettata dalla cultura del seppuki, il suicidio commesso dai samurai per senso d’onore. Una scelta di sicuro ascrivibile alla gogna mediatica che, in Giappone, ha sconvolto la vita di tutti i protagonisti della vicenda.

«Yoshiki [Sasai] ha fatto tantissime cose molto meritevoli, avrebbe potuto vivere dimenticandosi di questo fatto... Ma è stato un periodo durissimo. Ricordo che ero stato invitato dal presidente del Riken per una cena a casa sua, nel centro di Tokyo, con il premio Nobel Yamanaka… E fuori dall’ingresso era pieno di giornalisti, accampati lì fuori. È stato un incubo mediatico, forse i politici ci sono abituati, ma per qualcuno che non lo è si tratta di qualcosa di estremamente pesante, un colpo durissimo…»

Come spesso accade, l’enfasi mediatica costruita intorno alla Obokata fu ciò che, allo scoppio dello scandalo, contribuì a fomentare la virulenza delle accuse. Ad Obokata fu cucita su misura la storia della giovane ricercatrice che vestiva il grembiule da cucina (il kappogi) invece del camice, che tappezzava le pareti del laboratorio di figurine della serie finlandese per bambini The Moomins, e che poteva, in ultima analisi, rappresentare un modello per altre rikejo, le donne scienziate in Giappone. Quest’immagine artefatta, che ha contribuito senz’altro ad innalzare gli indici di ascolto degli infotainment televisivi, è ciò che poi si è drammaticamente rivoltato contro tutti i protagonisti della storia.

D’altro canto, balza immediatamente all’occhio la peculiarità del Giappone nella reazione pubblica a questa vicenda; gli Stati Uniti, Paese in cui lavorava l’altro senior author della ricerca, Charles Vacanti di Harvard, non hanno infatti vissuto niente di paragonabile allo scandalo mediatico esploso nel Paese nipponico. «In Giappone c’è una cultura del capro espiatorio, tutta la frustrazione di interi settori della società ti si può rivoltare facilmente contro. Specialmente se diventi un personaggio mediatico, allora devi essere pronto a tutto».

Al di là delle questioni culturali e degli aspetti di psicologia sociale, certamente centrali, vi è anche un altro elemento cruciale per inquadrare gli avvenimenti nella giusta prospettiva «In Giappone, quando l’economia va male, cosa si fa? Si aumenta la spesa in ricerca e sviluppo», chiosa Carnicni. «Il Giappone è grande più o meno come l’Italia, ma il 67% del Paese è montuoso. E la scienza e la tecnologia sono tutto, da queste parti».

«La scienza, la cultura e la formazione scientifiche, hanno qui un ruolo molto più importante rispetto all’Italia, come attestato ogni qual volta un’istituzione scientifica apre le porte dei propri laboratori. Il pubblico accorre numerosissimo: per il nostro open day, al Riken, vengono più di tremila persone ogni anno. A Kobe sono tremila, a Wako cinquemila. Comunichiamo i nostri risultati scientifici, organizziamo seminari per il pubblico... C’è un grosso interesse per la scienza, riceviamo una cinquantina di scolaresche l’anno, interi pullman di studenti che vengono in laboratorio. Molte pagine sui giornali sono dedicate alla scienza… Quindi, se poi la combini grossa in ambito scientifico, tutto questo si rivolta contro di te molto violentemente».

***

Per approfondire:

[1] Mianna Meskus, Luca Marelli & Giuseppe D'Agostino (2017): Research Misconduct in the Age of Open Science: The Case of STAP Stem Cells, Science as Culture, DOI: 10.1080/09505431.2017.1316975

 
European Institute of Oncology (IEO)
Post-Doctoral Fellow
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