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Come il Giappone governa la tecnoscienza. Intervista con Piero Carninci
by Luca Marelli
13 February 2018

In giapponese c’è un termine impronunciabile (isogabamaware), la cui traduzione suona come uno di quei proverbi dell’antica saggezza nipponica: «se hai fretta, vai piano». E in effetti, quando pensiamo all’Oriente più estremo, pare che la scansione del tempo ci suggerisca questo ritmo paradossale. Da un lato, il dinamismo economico ci proietta nel futuro più tecnologicamente avanzato del globo; dall’altro, l’economia pianificata giapponese, come hanno notato ironicamente alcuni analisti occidentali, sembra una sorta di sistema sovietico che «ce l’ha fatta» [1]. Proprio ciò che pareva essere di ostacolo al progresso economico nel periodo sovietico – e cioè un esteso apparato statale, fortemente centralizzato – a questa latitudine pare invece, al contrario, la chiave del successo tecnologico del Paese.

E tuttavia, il successo del Giappone nel realizzare alcuni dei più ambiziosi progetti di ricerca scientifica e tecnologica al mondo non può certo essere ridotto a ricette univoche. Anche solo un rapido sguardo alle politiche della scienza e dell’innovazione messe in atto nel Paese ci rivela un quadro complesso e variegato.

Dalla realizzazione negli anni ’60, attraverso massicci investimenti e un’attenta pianificazione statale, di uno dei maggiori poli tecnologici al mondo, la città della scienza di Tsukuba, alla realizzazione di quella di Kansai (comprendente un network diffuso di centri di ricerca, aperto al mercato e funzionale allo sviluppo della regione tra Kyoto, Osaka e Naruto) negli anni ’80, fino al ruolo svolto negli anni ’90 dal MITI (Ministry of International Trade and Industry) nel disseminare in tutto il paese nuovi e avanguardistici technopoles, le strade intraprese dal Giappone per dare impulso all’innovazione scientifica e tecnologica sono state molteplici [1].

 

View of Mount Tsukuba and Tsukuba Center
La città della scienza di Tsukuba

L’occasione per provare ad addentrarci in un mondo così complesso – e a causa della (per molti di noi) insuperabile barriera linguistica, anche così lontano – ci è data da una lunga conversazione con il ricercatore italiano Piero Carninci, da più di vent’anni all’Istituto Riken, uno dei più prestigiosi centri di ricerca in Giappone e nel mondo, e oggi direttore della divisione di tecnologie genomiche dell’istituto. Le sue osservazioni ci offrono una mappatura più completa del modello scientifico nipponico, aiutandoci a inserire nella giusta prospettiva le diverse coordinate storiche, culturali e politiche. E, forse, anche a rendere l’estremo oriente un po’ meno estremo.

La prima domanda è un invito a tracciare il suo personale percorso che dall’Italia l’ha portato in Giappone. Qual è stato il primo impatto avuto con una realtà così diversa dalla nostra? «Era il 1995. In una settimana la frustrazione che avevo in Italia si era sgonfiata», risponde prontamente. «A ventinove anni lavoravo in una spin-off di Trieste sviluppando metodologie per analizzare il genoma. Successivamente mi sono occupato di tecnologie per il sequenziamento. Tuttavia mi sono trovato sempre davanti ad un muro, perché in Italia la biotecnologia non era finanziata, non si potevano fare grandi cose».

Un convegno sull'elettroforesi a Monaco di Baviera è l’occasione per l’incontro con il giovane team leader del Riken, quello che poi, alcuni mesi dopo, sarebbe divenuto il suo datore di lavoro. «Per la verità – puntualizza abbozzando un sorriso – il trait d’union tra Monaco e il Giappone è una giovane ragazza giapponese, conosciuta per caso in estate, che poi mi spinse ad applicare all’estero…». Ad ogni modo, «l'impatto è stato estremamente positivo. L’unica preoccupazione era quella di pensare ad un buon progetto, senza avere particolari problemi di budget e costi. Inoltre, nell’ambiente lavorativo vigevano una tempestività e una funzionalità invidiabili. Gli enzimi arrivavano in appena un giorno e mezzo, con un semplice ordine telefonico…».

I giapponesi hanno fama di essere un popolo molto riservato, di gran lavoratori. Sono veri questi stereotipi? La risposta pare confermarne alcuni, smentendone altri: «si lavora tanto, certo, ma devo dire che anche in Italia lavoravo tanto». Nel ripercorrere le notti di lavoro trascorse in laboratorio in Italia, accompagnate solo dagli scoop di tangentopoli trasmessi dal giornale radio di mezzanotte, chiarisce la differenza di mentalità: «in Italia in ambito lavorativo si è più spinti dall’ambizione personale, in Giappone vi è una maggiore dedizione legata al rispetto gerarchico. Inoltre – spiega – i giapponesi tendono a essere più riservati, rendendo più difficile la costruzione di un rapporto al di fuori dell’ambito lavorativo, e sono anche molto più vittime di un’ansia da prestazione, causata da un sistema educativo che li ha formati e votati al perfezionismo».

E questo è tanto più vero in uno dei poli di eccellenza del Paese, l’istituto Riken. «Il Riken nasce nel 1917 come istituto per la chimica e la fisica; in giapponese, infatti, il nome è proprio l’abbreviazione di “Istituto per la chimica e per la fisica”». Originariamente le ricerche si indirizzavano principalmente allo sviluppo tecnologico: «Ci sono anche molte aziende che si chiamano Riken, e producono di tutto, dalle gomme alle vitamine, tutte fondate prima della seconda guerra mondiale. Molte di quelle che oggi chiameremmo spin-off, infatti, utilizzavano originariamente i risultati scientifici del Riken per finalità commerciali, restituendo poi una parte dei ricavati all’istituto». Durante la seconda guerra mondiale, e invero già a partire dagli anni ‘30, la ricerca si è quindi convertita in ricerca bellica, anche attraverso lo sviluppo di un programma per la bomba atomica. Danneggiato dai bombardamenti americani, l’istituto fu poi smembrato in seguito alla sconfitta del Giappone, con i vincitori americani che imposero inoltre come diktat la dismissione delle sue partecipazioni nelle varie aziende private con cui collaborava.

 

L'Istituto Riken negli anni '20

«La ricerca in ambito biologico entra al Riken solo negli anni ’70 – prosegue Carninci – prima c’era solo un centro di ricerca a Wako City, nel Nord di Tokyo». In seguito, il Riken ha avuto una grande espansione con la costruzione di nuovi centri, e con l’inizio del nuovo millennio è diventato cinque volte più grande rispetto a quello che era fino alla metà degli anni ‘90. «Nel 2003, poi, l’istituto cambia appartenenza, cioè pur continuando ad essere finanziato coi soldi pubblici, acquisisce una maggiore autonomia».

Il cambiamento, prevedibilmente, va ascritto a motivazioni «soprattutto politiche». Come altrove, anche in Giappone «il cambiamento del vento politico influenza direttamente la ricerca scientifica. Un esempio è quello che accadde nel 2010, quando, per la prima volta dal 1946, il Partito Democratico vinse le elezioni contro il Partito Liberale, al potere ininterrottamente dal dopoguerra. Quello che però successe poi è che, in nome di quelli che in Italia chiameremmo “tagli alla casta”, si andò anche a tagliare tutto il resto, ricerca inclusa…»

Nihil sub sole novum, verrebbe da pensare. Ma andiamo oltre. Come è strutturato il Riken nei suoi diversi centri? «Abbiamo circa 10 centri in 5-6 Campus. Una parte del Riken è costituita da una serie di laboratori indipendenti, che fanno ricerca esplorativa, dalla fisica alla chimica. Poi abbiamo circa dieci grandi centri – ma il numero cambia spesso – come il nostro. Ogni centro dipende dal Presidente, ha un direttore, un budget annuale che deve difendere, e una review da affrontare, condotta dal governo giapponese ogni anno. C’è poi un external panel di valutazione ogni due anni. E ogni cinque anni c’è un reshuffling (rimpasto): i centri possono essere chiusi, modificati, accorpati. Dipende dalla performance… Se la review è ottima si combatte bene, se invece la review dell’istituto non è buona per quell’anno, puoi avere una riduzione per l’anno seguente. Le review internazionali, invece, non vengono prese in considerazione».

 

La sede del Riken di Yokohama

Le perplessità su questo sistema di finanziamento, inutile nasconderlo, ci sono, a partire proprio dalla scarsa considerazione delle review internazionali, scelta dettata in parte dalla preferenza per la lingua locale, e in parte da logiche di politica interna. «Bisogna però dire che, nel complesso, il sistema è più funzionale che in Italia, e che quindi, oltre a districarsi nella politica interna, bisogna anche produrre ricerca di qualità…».

Il racconto di Carninci rende il quadro iniziale meno fosco: possiamo dire che al Riken, rispetto agli altri settori della società giapponese, c’è una maggiore fluidità e flessibilità? «È proprio così», risponde, sottolineando tuttavia, di tale aspetto, l’eccessiva precarizzazione di interi settori della ricerca. «Questa fluidità spesso è negativa perché ti costringe a chiudere un progetto prima del tempo. Un centro Riken per regola dura dieci anni, dopo i quali può continuare a fare ricerca, essere smantellato o cambiare in parte. Anche la maggior parte dei nostri contratti vanno di cinque anni in cinque anni. Però nella ricerca, sai, ci vogliono anni per prendere un po’ di velocità. Questa fluidità è eccessiva, perché hai bisogno di un bilanciamento tra stabilità e innovazione. E poi è una fluidità che si scontra poi con la realtà esterna, dove tutto è stabile...».

Proprio per questo, la rilevanza di questo modello di governance, importato in Giappone dal mondo anglosassone, soprattutto americano, si estende, come spesso accade, ben oltre la sfera della ricerca scientifica: «il Riken – ci spiega – è una sorta di laboratorio che conduce degli esperimenti che si diffondono poi nel tessuto sociale del Paese. Guardando al Riken, si può guardare a quello che sarà, in meglio o in peggio, il futuro del Giappone».

Gli esempi di pratiche che, nate al Riken, si sono poi diffuse in tutto il Paese sono molteplici. Dal ricorso sempre più frequente a contratti a termine per i ricercatori, all’impulso verso la creazione di spin-off («a partire dalla fine anni ’90, e sempre con le dovute cautele per evitare conflitti di interesse, per via della legge in vigore dal dopoguerra»), fino alla spinta verso l’internazionalizzazione: «Al Riken abbiamo iniziato a internazionalizzare molto tempo fa, ora ci sono il 60% di stranieri, tra ricercatori e tecnici. Al nostro dipartimento siamo stati i primi, dando pari opportunità, migliori condizioni per gli stranieri, più supporto per la lingua, per chi deve aprire un conto corrente, maggiori informazioni sull’accesso al sistema sanitario... E ora questo tipo di politica si sta sviluppando negli altri settori del sistema di istruzione superiore giapponese».

La peculiarità del Riken nel fungere da incubatore di cambiamenti sociali si può cogliere in relazione all’altro grande polo culturale del Paese, l’università imperiale di Tokyo: «l’università di Tokyo è come la Chiesa, è una istituzione nel Paese, difficilmente riformabile. Mentre il Riken, pur avendo cento anni, è un ente che si è rinnovato molto, a partire dalla seconda guerra mondiale, negli anni ‘70 e anche nel nuovo millennio. L’influenza americana l’ha reso indubbiamente un’istituzione molto flessibile…».

Inevitabile, a questo punto, è una domanda sui più recenti sviluppi italiani, riguardanti il lancio del progetto Human Technopole. «Questi grandi progetti sono estremamente importanti, in particolare per il genoma, ed è cruciale che avvengano come parte di una strategia nazionale. Dall’Inghilterra alla California stanno sequenziando milioni di genomi. Questo stravolgerà il modo in cui facciamo la medicina, la diagnostica. O si fa questo anche in Italia, o tra dieci anni verranno le aziende americane, con soluzioni però che non saranno fatte su misura per l’Italia.»

La conversazione è giunta ormai al termine. Prima di congedarmi, non riesco tuttavia a trattenere un’ultima curiosità: professore, che ne è stato della ragazza incontrata a Monaco nel 1995? Piero Carninci, sorridendo, fa mostra di aver fatto sua quella proverbiale riservatezza che permea, in ogni ambito, la cultura giapponese: «succedono tante cose… Ecco, diciamo che la vita è andata avanti...».

 

[1] Castells, M., Hall, P. (1994). Technopoles of the World. The making of twenty-first-century industrial complexes. Routledge.

Ringraziamo per la collaborazione il dott. Vincenzo Fatigati.

*** 

Piero Carninci Piero Carninci è un genetista, formatosi all’Università di Trieste. Dal 1995 lavora presso l’Istituto Riken in Giappone, divenendo, nel 2008, direttore della divisione di tecnologie genomiche dell’istituto. Si è specializzato nello sviluppo della tecnologia CAGE e con ENCODE, e ha pubblicato più di 200 articoli scientifici.
 
European Institute of Oncology (IEO)
Post-Doctoral Fellow
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