L'avvento di CRISPR-Cas9 ha innescato un rilevante dibattito su scala globale in merito alle problematiche etico-politiche derivanti da questa nuova tecnologia. Ne abbiamo discusso, alla Casa della Cultura di Milano, con Giuseppe Testa, Telmo Pievani, e Simone Penasa.
Non vi è forse oggi dibattito globale più rilevante, a cavallo tra scienza, bioetica, diritto e sociologia, di quello che riguarda lo sviluppo della più innovativa tecnologia di genome editing, una proteina in grado di modificare in modo preciso e puntuale il genoma di virtualmente qualsiasi organismo animale o vegetale: CRISPR-Cas9.
Nominata «scoperta dell’anno 2015» dalla rivista Science, CRISPR ha avuto un impatto nell’ambito delle scienze della vita che ben difficilmente può essere ignorato. In particolare, a dispetto della complessità dell’acronimo (CRISPR sta per Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats), questa tecnologia di genome editing si differenzia dalle precedenti (come le TALENs o le ZFNs) per l’estrema precisione ed efficienza dell’editing, il costo contenuto e la relativa semplicità di utilizzo – caratteristiche che ne hanno permesso una rapidissima diffusione nei laboratori di tutto il mondo. Come ha osservato André Choulika, fondatore di Cellectis, «la rivoluzione di CRISPR, in fondo, consiste nel fatto di rendere il gene editing accessibile a qualsiasi ricercatore». E se ciò è ben lungi dal rappresentare quello che Dana Carroll (University of Utah) ha forse un po’ ingenuamente definito una «democratizzazione del gene targeting», è indubbio che CRISPR inauguri l’era del prêt-à-porter delle tecnologie di genome editing, rendendo possibili una serie di «applicazioni pratiche che fino ad oggi erano state viste unicamente come mere opzioni teoriche»[1].
Tra i numerosi (e promettenti) ambiti di applicazione, si possono menzionare tanto l’utilizzo di CRISPR nella ricerca agro-industriale, quanto il suo impiego in biomedicina. Rispetto alla prima, questa tecnologia potrebbe rappresentare un crinale potenzialmente decisivo, favorendo la transizione dagli OGM ai cosiddetti OGE (Organismi Geneticamente Editati), ossia organismi in cui non vengono introdotti geni ad essi estranei, ma vengono “corretti” quelli in essi presenti, e per il cui sviluppo, in Italia, il ministro Martina ha di recente stanziato svariati milioni di euro. Nell’ambito della biomedicina, d’altra parte, la grande promessa di CRISPR risiede nel suo utilizzo tanto nell’ambito della terapia genica, quanto per ciò che, nelle science policy di tutto il mondo, è stata a lungo considerata una linea rossa invalicabile: la modificazione della linea germinale umana (gameti ed embrioni), il cui esito ultimo è la produzione di mutazioni che, proprio perché ubicate sulla linea germinale, non potranno che essere ereditate dalle generazioni future in modo irreversibile, perpetuandosi nella specie.
Pertanto, se il completamento dello Human Genome Project segna l’evento della digitalizzazione del vivente, CRISPR rappresenta l’emblema, al pari e forse più della riprogrammazione cellulare e delle culture cellulari in 3D (i cosiddetti organoidi), della sempre più sofisticata capacità delle bioscienze di (ri-)scrittura del fenomeno vitale stesso. Vertiginoso avanzamento biotecnologico che reca in sé, inavvertite ai più, sfide e problematiche decisive.
La bioscienza impara a scrivere (ma sa leggere?)
Una prima problematica, osserva Telmo Pievani, riguarda i rischi connessi all’editing stesso. Se con CRISPR, infatti, siamo in grado di manipolare il genoma di virtualmente qualsiasi organismo, ci troviamo tuttavia di fronte al paradosso di non conoscere gli effetti funzionali di tali modificazioni per il sistema biologico nella sua complessità, dal momento che «la nostra attuale conoscenza della funzione dei geni, e delle loro interazioni, è molto più limitata della nostra capacità di intervenire su di essi»[2]. Il che significa, in altre parole, che modificare un genoma con CRISPR equivarrebbe a editare un testo di cui conosciamo l’alfabeto in cui è scritto, senza tuttavia padroneggiarne appieno la sintassi (il modo corretto in cui le parole si dispongo una dopo l’altra) e ignorando quasi completamente la semantica (il significato a cui tale parole rimandano).
In aggiunta a ciò, va inoltre osservato come la nostra ignoranza degli effetti si estenda ben oltre il mero rischio biologico. Come infatti nessuno, agli albori dell’ingegneria genetica negli anni ‘70, si era dimostrato capace di prevedere l’enorme impatto che la nascente industria del biotech avrebbe avuto nel contribuire a creare quelle che oggi definiamo società della conoscenza avanzate [3], ci troviamo ora, allo stesso modo, nell’impossibilità di prevedere la portata di CRISPR nel riconfigurare gli stili di vita, i codici socio-culturali, le strutture economiche delle nostre società. Interrogativi quali chi potrà beneficiare delle innovazioni apportate da CRISPR, quale sarà il suo impatto all’interno di differenti gruppi sociali, e quali saranno le conseguenze indesiderate, rimangono dunque, ancora, domande aperte.
L’importanza di tali questioni non chiama allora solamente in causa il ruolo sociale degli scienziati – è compito di chi fa ricerca occuparsi anche di tali problematiche? La risposta, secondo Jennifer Dounda (una delle scopritrici di CRISPR), non può che essere affermativa – ma soprattutto ci mette in guardia dal far propria una concezione troppo ristretta della nozione stessa del ‘rischio’ relativo a CRISPR, derivante dall’operare una distinzione netta tra «preoccupazioni tecniche e di sicurezza» (da affrontare nell’immediato) e «obiezioni che riflettono considerazioni morali» (da affrontare in un secondo momento), come invece sostenuto dallo Statement on genome editing dell’influente Hinxton Group[4]. Se infatti andiamo a considerare quelli che Pievani annovera tra i cosiddetti rischi immediati dell’utilizzo di tale tecnologia – il possibile dual use in ambito militare o terroristico, l’impatto ecologico e per la biodiversità, ma anche conseguenze evolutive (secondo l’ipotesi della runaway selection) – appare chiara l’impossibilità di tracciare una netta linea di demarcazione tra “sicurezza” (che ha a che fare con questioni di carattere tecnico-scientifico) e “moralità” (che ha a che fare con questioni relative al modo in cui si dovrebbe agire). Poli, questi, che appaiono non solo come saldamente intrecciati (quella del rischio per la biodiversità è una questione ‘tecnica’ o ‘morale’? Evidentemente entrambe le cose), ma anche come mutualmente costituentesi (un rischio è tale a partire dalla percezione di un effetto indesiderabile, che a sua volta dipende dalle nostre scelte e preferenze morali in senso lato, esse stesse influenzate dallo sviluppo tecnologico, ecc.).
Brave new world?
Un secondo ambito di problematiche aperte da CRISPR, osserva Giuseppe Testa, riguarda la possibilità di intervento sulla linea germinale umana. Non è infatti difficile immaginare, già da ora, un futuro in cui, con CRISPR, potremo modificare i geni dei nostri figli, per evitare ad esempio che si ammalino di HIV, o per ridurne la suscettibilità ad altri tipi di patologie. Nel contempo, tuttavia, potremo anche operare una serie di modificazioni volte al perseguimento di un loro potenziamento fisico e/o cognitivo. Tralasciando la difficoltà concettuale di operare una netta distinzione tra interventi di terapia e interventi di potenziamento, due sono le questioni che tale problematica solleva.
In primo luogo, la domanda sulla liceità morale dell’intervento sulla linea germinale umana riguarda il rischio di interferenza nell’autonomia e nell’autodeterminazione delle generazioni future. Proprio perché tale intervento andrebbe letteralmente ad iscriversi nel sostrato biologico stesso delle nuove generazioni, configurandosi quindi come irreversibile, non sarebbe forse più opportuno astenervisi? Procedendo in questa direzione – sostengono i critici dell'utilizzo di CRISPR in tale ambito – si andrebbe infatti ad inficiare inevitabilmente il duplice diritto delle generazioni future a ereditare un genoma non manipolato e mantenere un «futuro aperto». O di converso, è la contro-obiezione, non si tratterebbe invece di un intervento del tutto assimilabile ai numerosi investimenti educativi (come ad esempio l’iscrizione a corsi sportivi o musicali) che già da oggi poniamo in atto per il potenziamento fisico e cognitivo dei nostri figli, e che difficilmente potrebbero configurarsi come “reversibili”? La questione, come è evidente, non è passibile di una facile risoluzione.
In secondo luogo – ed è questo, indubbiamente, la questione politica centrale che il genome editing porrà davanti a noi con sempre maggior insistenza nei prossimi anni – dobbiamo chiederci: che cosa significa fare ciò, in un contesto sociale caratterizzato dal radicarsi di una sempre più marcata diseguaglianza socio-economica? In presenza di crescenti disparità d’accesso al “mercato” dell’assistenza sanitaria e delle tecnologie riproduttive, dobbiamo forse rassegnarci al progressivo consolidamento, perseguito anche attraverso mezzi biotecnologici, di una «casta alpha» con accesso alle migliori opportunità politiche e sociali, di contro a una pletora di Untermenschen lasciati sempre più ai margini delle occasioni di benessere concesse dalle nostre società?
D’altro canto, osserva ancora Giuseppe Testa, il quadro appare ulteriormente complicato dal fatto che molte delle possibilità aperte da CRISPR sono state pensate, e soprattutto desiderate, da sempre; ciò che cambia, con CRISPR, è unicamente (e non è ovviamente poco) l’effettiva capacità di attualizzarle. Il desiderio – «ciò che, tradizionalmente, siamo stati molto poco efficienti a controllare» – emerge dunque come il tema centrale attraverso cui pensare lo sviluppo di questa tecnologia, il quale «non avverrà tanto per un determinismo tecnologico, quanto piuttosto perché l’uomo desidera, e le cose che questa tecnologia promette rispondono a desideri antichissimi».
Come imparare a «desiderare insieme» sembra dunque imporsi come la questione politica cruciale sollevata da CRISPR.
Se CRISPR infatti, secondo la metafora impiegata da uno dei suoi scopritori, è concettualmente assimilabile al cursore di word (progettato per consentire un rapido editing dei testi che scriviamo), ciò che si tratterebbe di pensare è un uso emancipatorio di tale cursore. Un uso, in altre parole, che resista alla «tentazione dell’autocorrect», e cioè alla tentazione di ricorrere a quel procedimento di correzione automatica, di cui tutti facciamo quotidianamente esperienza con i nostri programmi di scrittura, che sottopone i testi che scriviamo al vaglio di una normatività che non è mai interamente nostra (chi decide il contenuto del vocabolario sulla base del quale l’autocorrezione opera?) – tentazione nella quale cadiamo, potremmo aggiungere a titolo di esempio, allorchè accettiamo che l’ideale di potenziamento venga plasmato, in modo meno visibile ma forse non meno pericoloso rispetto al discorso dell’eugenetica del ‘900, dalle pressioni della cultura consumistica e omologante del (bio)capitalismo contemporaneo.
Governance alle frontiere della tecnoscienza
A partire da tali riflessioni, proviamo dunque a chiederci: come deve configurarsi il ruolo del legislatore-regolatore rispetto all’avanzamento biotecnologico? In altre parole: come articolare la relazione tra scienza e diritto, evitando le opposte tentazioni di uno stato etico, che asservisce ad una specifica moralità ad esso coestensiva lo sviluppo scientifico-tecnologico, e di uno “stato scientista”, che assume invece il dato scientifico come assoluto?
Nel (cercare di) dirimere tale questione, ci ricorda Simone Penasa, appaiono paradigmatiche le motivazioni con cui, qualche mese fa, la Corte Costituzionale italiana ha dichiarato compatibile con la Costituzione il divieto posto dalla Legge 40 alla ricerca con embrioni umani. Il punto controverso, secondo la Corte, non è infatti tanto il contenuto della norma in quanto tale (se cioè sia giusto operare un tale divieto); quanto piuttosto, di fronte all’irriducibilità del disaccordo tra le differenti prospettive valoriali possibili (ad esempio, promozione della ricerca scientifica vs tutela dell’embrione), la domanda su come e a chi appartenga la prerogativa di decidere in merito. Al riguardo, argomenta la Corte, il compito di introdurre un bilanciamento tra i diversi valori in conflitto non può che spettare unicamente al legislatore, e cioè a colui che, investito dal mandato popolare, è (aporeticamente) chiamato ad esprimere il comune sentire (il “desiderio”) della società nel suo complesso, mediando tra le diverse istanze in essa presenti.
E tuttavia, per quanto riguarda almeno il caso italiano – ma forse non solo – due problematiche riguardo alla governance della ricerca scientifico-tecnologica in generale (e di CRISPR in particolare) vanno annotate in conclusione.
In primo luogo, osserva Telmo Pievani, mancano in Italia meccanismi istituzionali di governance in grado di consentire alla comunità scientifica di interfacciarsi con il decisore politico e di rappresentarne adeguatamente la pluralità di prospettive in essa presenti. Troppo spesso, al contrario, accade invece che siano il politico o il giornalista di turno a designare singoli scienziati come portavoce delle istanze della comunità scientifica nella sua interezza, senza che ciò soddisfi invero alcun criterio di rappresentatività della stessa.
In secondo luogo, assistiamo pressoché ovunque a una crescente discrasia tra l’accelerazione imposta dallo sviluppo tecnologico, e dall’imperativo di competitività economica ad esso spesso soggiacente, e la capacità decisionale della democrazia stessa. Il pericolo incombente, come osservato dal sociologo tedesco Harmut Rosa, è dunque che l’accelerazione imposta dai mercati e dall’avanzamento tecnologico porti a una sempre maggiore compressione degli spazi di democrazia deliberativa, di quegli spazi cioè in cui «sia possibile formulare argomentazioni, vagliarle, soppesarle, e fare una scelta» il più possibile partecipata e consapevole[5].
In un tale contesto, il rischio è che il dibattito che risulterà decisivo nel plasmare il cammino dell’innovazione di CRISPR sia più quello che si svolge nei consigli di amministrazione delle industrie del biotech e delle più prominenti law firm internazionali, rispetto a quello che ha luogo all’interno di assemblee pubbliche e democraticamente legittimate.
E questo è un rischio che dovremmo tutti guardarci bene dal correre.
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Simone Penasa è ricercatore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Trento.
Telmo Pievani è professore ordinario presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Presso lo stesso Dipartimento è anche titolare degli insegnamenti di Bioetica e di Divulgazione naturalistica.
Giuseppe Testa è professore associato di Biologia molecolare presso l'Università degli Studi di Milano. Presso l'Istituto Europeo di Oncologia (IEO) dirige il laboratorio di Epigenentica delle cellule staminali e l'unità di ricerca in Science & Technology Studies (STS).
Note:
[1] U.S. National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine. (2017). Human genome editing: Science, ethics, and governance.
[2] K. Rajewsky, The historical scientific context, paper presented at the International Summit on Human Genome Editing, Washington, DC, December 1-3, 2015.
[3] È quanto ha candidamente dichiarato il premio Nobel Paul Berg, uno tra gli organizzatori della conferenza di Asilomar sul DNA ricombinante del 1975. In un breve saggio su Nature del 2008, riflettendo su quest'importante momento di riflessione all'interno della comunità scientifica, il ricercatore statunitense ha infatti scritto: «Genetically modified hormones, vaccines, therapeutic agents and diagnostic tools are enhancing medical practice. Genetically engineered food plants are being grown and sold for consumption in both developed and developing countries. A thriving biotechnology industry has created products, jobs and wealth for scientists and others. Very few Asilomar attendees foresaw this great potential — nor could we have predicted the pace at which our fundamental understanding of biology has grown».
[4] Chan, S. et al. on behalf of the Hinxton Group. (2015). Genome editing technologies and human germline genetic modification: The Hinxton Group Consensus Statement. The American Journal of Bioethics, 15(12), 42-47.
[5] Rosa, H. (2015). Accelerazione e alienazione: per una teoria critica del tempo nella tarda modernità. Einaudi.