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KAUST: dal petrolio alla knowledge society. Come la scienza sta cambiando l’Arabia Saudita.
by Luca Marelli
21 January 2017

In Arabia Saudita, sulle sponde del Mar Rosso, a poco più di un centinaio di chilometri dalla Mecca, dove ancora dieci anni or sono il deserto lambiva un villaggio di pescatori, sorge oggi la seconda università più ricca del mondo: la King Abdullah University of Science and Technology (KAUST).

Centro di ricerca in rapidissima ascesa in svariati campi della scienza e della tecnologia, dalla biologia all’ingegneria elettronica, università interamente dedicata alla ricerca avanzata (offre solo programmi di Master e dottorato), vera e propria cattedrale nel deserto della tecnoscienza: non si può che rimanere affascinati, guardando al KAUST, dalla potenza che il mito dell’innovazione – una delle grandi ideologie nell’epoca che troppo in fretta ne ha decretato la scomparsa – esercita sulle coscienze collettive delle società di tutto il mondo. E non può che far riflettere la forza dirompente di questo «immaginario globale», per usare l’espressione del politologo Manfred Steger, nel trasformare in modo radicale non solo l’organizzazione della ricerca scientifica e le modalità di trasmissione della conoscenza, ma anche le strutture sociali e i paradigmi culturali di comunità politiche che si trovano a dover affrontare – più o meno preparate – i grandi cambiamenti del mondo contemporaneo.

Sono queste le riflessioni che segnano, a caldo, la mia lunga conversazione con Valerio Orlando, dal 2013 direttore del programma di epigenetica al KAUST, dopo una carriera trascorsa tra l’Italia e la Germania. Figura giovanile, la voglia di raccontarsi propria di chi si trova a frequentare ambienti ai confini della consuetudine e del noto, lo sguardo attento di chi non disdegna affatto la conversazione «con un filosofo» («finalmente un filosofo a occuparsi di queste cose!»). Intervista che, oltre la governance della scienza, prenderà presto la via della testimonianza, lucida e di ampio respiro, sul significato e sull’impatto che un centro come il KAUST può avere su una società profondamente tradizionalista come quella saudita. E viceversa.

Iniziamo il dialogo, e la prima domanda è quasi d’obbligo. Come ci è arrivato a KAUST, professor Orlando? «Fui contattato dalla leadership di KAUST, una leadership internazionale composta da persone provenienti da varie parti del mondo, che aveva individuato l’epigenetica come un settore strategico, e che mi chiamò per chiedermi che cosa, secondo me, si sarebbe dovuto fare per sviluppare un programma di ricerca in tale ambito. Mi fu fatta la domanda, “quanto le serve?” che secondo me è una domanda abbastanza inusuale nel nostro campo… Io, devo dire, risposi elegantemente, “posso dirvi cosa penso debba essere fatto, e su questo poi voi farete anche le vostre considerazioni economiche”. In sostanza, si è lavorato insieme…». Un percorso, iniziato nella primavera del 2012, che ha visto la stesura di un dettagliato documento di visione da parte del ricercatore italiano, la sua approvazione da parte della dirigenza di KAUST, e infine la decisione del trasferimento in Arabia Saudita, a inizio 2013.

Al momento del suo arrivo al KAUST, Valerio Orlando trova un centro di ricerca ancora molto giovane, in piena espansione. Il KAUST venne infatti fondato nel 2009, su iniziativa del governo saudita (alias la famiglia reale), che individuò nell’istruzione, specialmente in ambito scientifico e tecnologico, uno degli elementi portanti per favorire la transizione da un’economia basata sul petrolio a una basata sulla conoscenza fondamentale. «Quella di KAUST è stata un’operazione tutt’altro che triviale per un Paese con una struttura religiosa di questo tipo... D’altro canto non è l’unica, se si pensa che ci sono circa 200.000 studenti sauditi, un gran numero donne, che vengono selezionati per studiare nelle università straniere, interamente pagati dal Governo… Ora, l’aspetto interessante di KAUST è che l’iniziativa avvenne sotto l’egida del ministero del petrolio, e non del ministero dell’istruzione. Che cosa ha fatto la famiglia reale? In due anni ha costruito questo posto, e lo ha messo in sicurezza con una dotazione – un fondo di 32 miliardi di dollari, il secondo più ingente al mondo dopo Harvard, totalmente investito al di fuori dell’Arabia Saudita – che rende KAUST autonomo dal punto di vista finanziario. Quindi, che il prezzo del petrolio vada su, o vada giù, noi siamo indipendenti, e campiamo sui proventi di questo capitale».

In ragione di ciò, a KAUST «non si fa assolutamente sentire» neanche la crisi petrolifera in cui ancora versa il Paese saudita, dopo aver svolto a lungo un ruolo determinante in seno all’OPEC per tenere basso il prezzo del greggio, al duplice fine di mettere fuori mercato la concorrenza dello shale gas americano e indebolire la Russia di Putin, avversaria sullo scacchiere geopolitico mediorientale.

D’altro canto, ci spiega Orlando, la scelta di bypassare il ministero dell’istruzione, a favore di quello del petrolio, non è stata unicamente legata alla maggiore forza del portafoglio economico del secondo. «Sicuramente ci sono state considerazioni economiche, dal momento che stiamo parlando di budget molto diversi tra i due ministeri. Però c’è anche il fatto innegabile che il ministero dell’istruzione si rivolge a un’altra serie di realtà accademiche che non sono altrettanto virtuose. E quindi si è scelto di percorrere una strada più veloce, anziché mediare con tutta l’accademia saudita, che non è un’accademia propriamente dinamica…».

Il racconto sulla creazione di KAUST sembra ripercorrere gli eventi che hanno portato al lancio del progetto Human Technopole in Italia, con il MIUR scavalcato e il CNR lasciato ai margini dell’iniziativa. Il parallelismo sembra, ironicamente, molto marcato, non le pare, professore? «Adesso che stiamo parlando sì, vedo senz’altro le analogie… Quello che in Italia non è molto usuale è il meccanismo top-down, che in contesti come l’Arabia Saudita, ma anche in altri Paesi più propriamente democratici, si applica più facilmente. In Italia ci sono dei meccanismi dovuti, delle abitudini, che a torto o a ragione non facilitano questo tipo di operazioni. È pur vero che in Italia ci sono tanti micro top-down di cui si parla meno, ma che sono sempre esistiti, solo con un altro nome… Vogliamo chiamarla concertazione? Chiamiamola così. Sono stati spesi tanti soldi, arrivati di volta in volta a qualcuno che ha fatto o meno cose nobili, ma in modo abbastanza opaco, certamente non nel senso di investimenti volti a creare quel sistema di valori e regole condivise senza i quali invece anche un’iniziativa importante come Human Technopole rischia di fallire… Qui invece il Re decide che domani si fa l’università, e domani si fa l’università. In Russia, in Cina… succede la stessa cosa. La Cina, in cui mi sono recato recentemente, è davvero qualcosa di stupefacente…».

Se il ruolo centrale della famiglia reale saudita nella creazione di KAUST non può sorprendere più di tanto, in un Paese governato da una delle ultime monarchie assolute rimaste al mondo, altrettanto poco sorprendente è l’immaginario dell’innovazione e il modello di higher education a cui si è attinto a piene mani nella costruzione del centro di ricerca: quello statunitense. «Ogni politica ha indubbiamente una componente utopica. E nell’utopia locale c’è proprio il sistema educativo americano, che viene visto come il più competitivo, come quello vincente. Nel fare KAUST, si sono ispirati direttamente a questo. Hanno stabilito all’inizio relazioni dirette con Stanford, Caltech, Berkeley, e un paio di altre realtà, e hanno lavorato direttamente con la leadership di questi centri, che hanno collaborato alla costruzione della prima fase».

«Quello che invece – prosegue – fa la differenza rispetto al resto del mondo, e che differenzia KAUST rispetto ad altri modelli, è la totale libertà accademica. Qui si fa tutto in nome dell’innovazione, in nome della conoscenza fondamentale. Non abbiamo vincoli, non dobbiamo correre a trovare la cura per le malattie, non dobbiamo scoprire l’energia alternativa, non dobbiamo vendere qualcosa subito. No. La capacità di creare innovazione è il punto. La ricerca troppo focalizzata è uno schema obsoleto, che non produce innovazione. Ad esempio, nella scienza dei materiali, se uno non studia le proprietà chimiche e fisiche dei materiali, ma pensa subito alle loro immediate applicazioni, ha il respiro corto. Questo fa molto la differenza, ed è ciò che ci rende competitivi quando dobbiamo reclutare i ricercatori nel panorama internazionale».

Un approccio, questo descritto da Orlando, che marca una differenza rilevante rispetto a uno schema di pensiero, quello traslazionale, divenuto ormai predominante nell’assiologia della ricerca scientifica, Occidentale ma non solo. Sempre più spesso, infatti, il concetto di innovazione viene declinato nel senso della produzione di risultati clinici (e commerciali) tangibili, più che nell’avanzamento di una conoscenza scevra da criteri di utilità immediata. «È una giusta osservazione», annuisce Orlando. «Detto questo – aggiunge – ovviamente l’università è anche integrata con attività di economic development, abbiamo un dipartimento, un palazzo intero che si occupa di questo…».

 

Come il KAUST cambia la società saudita

Nel descrivere questa forte spinta verso l’innovazione, il racconto di Valerio Orlando va a toccare un punto nevralgico, quello del ruolo di KAUST all’interno del contesto saudita. «Per il KAUST qui in giro c’è tanta ammirazione. Dovunque vada, appena scoprono che lavoro al KAUST, la gente inizia a sognare… e sognano anche i colleghi che stanno nelle università normali, che hanno enormi problemi, ad esempio oggi di finanziamento, non solo per colpa della crisi petrolifera, ma anche del sistema universitario stesso. Così, quando KAUST va a parlare con ambienti industriali e ospedalieri, rappresenta indubbiamente un valore indiscusso, che crea opportunità che prima non c’erano anche per strutture meno virtuose, ma che hanno voglia di fare... Di fatto è un elemento motore per mille altre cose. E lo è per tutta la regione. Soprattutto è cruciale il fatto che faccia ricerca, e ne faccia tanta. Le altre università internazionali, ad esempio negli Emirati, dove c’è NYU, Weill-Cornell… fanno più insegnamento undergraduate e meno ricerca rispetto a noi. NYU sta andando anch’essa molto bene, ma il rapporto con KAUST è di uno a cento, NYU non ha la stessa dotazione finanziaria e le dimensioni di KAUST. Quindi è importante che KAUST sia stato creato, perché prima non c’era niente, e ora sta producendo mille opportunità».

E non solo dal punto di vista scientifico. Di grande rilevanza sono anche i cambiamenti introdotti da KAUST dal punto di vista socio-culturale. «Bisogna tenere a mente che KAUST non è una semplice università, ma una vera e propria città-comunità globale, nè propriamente saudita, né propriamente occidentale, di circa ottomila abitanti (a regime arriverà a dodicimila). A KAUST vi sono scuole (vi sono tutti i gradi scolastici, dal momento che i bambini, millecinquecento, sono numericamente la popolazione dominante, più dei post-doc), divertimenti, iniziative spontanee… Inoltre, questo è un compound, in cui puoi entrare solo se sei invitato, per cui la gente da fuori viene spesso invitata a passare qui il weekend, e ogni anno al graduation day vengono invitate tutte le famiglie, con due giorni di festeggiamenti».

«E l’idea alla base di tutto è stata quella di costruire un ambiente culturale diverso da quello tradizionale che possiamo trovare fuori di qui. E soprattutto, di costruire un ambiente accademico simile a quello che lasciano gli studenti sauditi che sono all’estero, e che vogliono tornare in Arabia Saudita. Faccio un esempio tra i tanti. Tra gli studenti sauditi che vengono qui, la gran parte sono donne. Ci sono magari delle ragazze, provenienti da famiglie molto religiose, che si presentano a lezione con il niqab. Bene, dopo un anno succede che una di loro ti saluta, e tu non sai chi sia… Era quella con il niqab… Quindi è un processo, di cui la comunità si prende carico, ma senza forzature: qui nessuno viene additato, “ah quella è coperta…”».

Le parole di Valerio Orlando tratteggiano con nitidezza il ruolo svolto dal KAUST non solo come motore per nuovi avanzamenti scientifici e tecnologici, ma anche come incubatore di abitudini e costumi sociali che sarebbe altrimenti ben più difficile riuscire a diffondere in un Paese molto tradizionalista come quello saudita. E tuttavia, il professore tiene a mettere in guardia da processi di omologazione troppo violenti – a cui conduce, in taluni casi, un certo scientismo diffuso… «Vorrei fare una considerazione personale», mi dice. «Uno dei motivi per cui sono felice di aver passato gran parte della mia vita nella scienza, è che la scienza mi ha educato alla tolleranza, alla conoscenza del diverso… E tuttavia – avverte – c’è gente nella scienza che dice “noi siamo scafati, easy going, abbiamo capito tutto dalla vita…”. Ed è vero, noi abbiamo un certo modo di pensare… Però non dobbiamo mai dimenticarci che noi rappresentiamo un certo tipo di modello, che non necessariamente deve essere trasferito in blocco a una parte di mondo che invece ha i propri valori e le proprie tradizioni...»

Valori e tradizioni sui quali un’esperienza come quella di Orlando al KAUST offre una postazione di osservazione privilegiata. Qual è la sua impressione, professore, sulla società saudita con la quale si trova in contatto, all’interno e al di fuori di KAUST? «La società saudita è molto strana. L’iconografia dominante è quella della donna con il velo, per intenderci. Poi però la gente va a Dubai a divertirsi… Ora, il contratto sociale di questa società ha alcune regole, un po’ come la Sicilia di tanti anni fa: c’è un dress code, ci sono dei valori condivisi, c’è omologazione, meccanismi ben noti in psicologia sociale, che chiaramente hanno un effetto condizionante. Ad esempio, le donne non possono farsi un giro da sole in macchina fuori da KAUST. C’è un contratto sociale che impedisce questo passaggio: la donna che guida è la donna emancipata, e quindi disponibile (anche se ti muovi meglio come donna che come uomo nei luoghi pubblici. Sono più gli uomini che non possono andare dove stanno le donne, che viceversa. Ed è inoltre tangibile che la domanda di cambiamento viene più dalle donne che dagli uomini. E in una società basata sulla famiglia questo alla lunga conta…)».

«Detto questo, poi però vivono tutti dentro i tablet, gli iPhone, le televisioni, dai quali arriva tutt’altro messaggio, ed è quello il mondo poi che gira nella testa delle persone… E, nel momento in cui si varca la soglia di una zona privata – case, compound, stabilimenti balneari, club – la gente fa esattamente il contrario di quello che fa quando esce fuori, purtroppo con tutti gli eccessi del caso… Insomma, ci sono queste dinamiche qui... Però è una scocciatura: la differenza è la libera scelta, su questo la società è ancora indietro…»

Non deve essere semplice confrontarsi con una realtà tanto diversa. Non posso a questo punto non chiedere: quali sono gli aspetti negativi che si trova a dover affrontare in quel contesto di vita e di lavoro? «Questa non la metterei come ultima domanda. La metterei come prima. Lungi da me dall’edulcorare niente. C’è una società arretrata, fuori da qui. E le problematiche con cui ci si confronta sono diverse, non sempre le tue. Ma in questo sta il proprio ruolo anche di intelletuale, ovvero di vivere e cooperare esercitando con piena responsabilità, ma anche dovuta distanza, il proprio lavoro di produttore di cultura. Purtroppo io non parlo arabo. E solo per questo mi sento a disagio, non parlando la lingua mi perdo il novanta per cento e più di quello che mi succede attorno. Quindi l’integrazione non avviene mai pienamente. Probabilmente sarebbe la stessa cosa in Giappone o a Singapore. Siamo decisamente molto diversi, o meglio viviamo problemi figli di tempi diversi. A volte mi capita di chiedermi: “ma io per chi lavoro?” Quando giro per il mondo, questa domanda induce curiosità e in alcuni casi giudizi severi. Ci ho molto riflettuto, devo dire, e mi sono risposto osservando che pur nelle oggettive limitazioni di una società conformista alle regole scritte e non scritte della religione, nessuno è venuto nel mio studio dicendomi che non devo parlare di certe cose. Io a lezione e fuori parlo di tutto. Qui nessuno mi condiziona assolutamente in nessun modo e anzi mi incoraggia a praticare la costruzione del nuovo, che di per se sembrerebbe facile nel momento in cui ti danno grandi risorse per farlo, e invece non lo è affatto solo perchè arrivi qui con il bollino di intellettuale del mondo sviluppato… D’altro canto, posso lamentarmi? No, proprio no. Ci sono tanti posti strani nel mondo dove la gente va a lavorare, qui lamentarsi sarebbe indegno…»

«Ho un grosso interrogativo – continua Orlando: ce la farà questa parte di mondo a progettare una migliore felicità e qualità della vita, nel senso di emancipazione delle persone, che consentirebbe a chi sta qui come noi, che è diverso, di avere un rapporto più integrato, più pieno di senso rispetto a quello che è la realtà attuale? Questo è il punto che mi fa riflettere. Ma sembra essere lo stesso problema dell’occidente. Per esempio, il fatto di essere additati tutti come terroristi fa molto arrabbiare la gente qui. Esiste anche qui un ceto medio, una società fatta di persone, un’opinione pubblica orgogliosa di se stessa che discute apertamente le responsabilità dell’occidente nell’attuale disastro del medio oriente, cosi come ne rifiuta l’omologazione. E c’è poi il contrappasso: la gente oggi non va in vacanza in Europa perché pensa sia pericolosa… Per questo, in questo momento storico, anche tragico, stare da questa parte di mondo ti insegna tanto…»

Giungiamo, con questa osservazione, alla conclusione dell’intervista e ai saluti, dopo una conversazione mai banale, protrattasi ben più a lungo del tempo previsto, in compagnia di un ricercatore non solo competente, ma anche dotato di un’intelligente e non scontata sensibilità critica. Valerio Orlando mi coglie in contropiede. «C’è una domanda che non mi hai fatto», mi dice «e che mi faccio io. Questo posto è tanto bello, ma non ha l’aspetto umanistico, e questo per me è una grave pecca. Tanto più in un Paese del genere, che insomma, viene un po’ dal nulla, la domanda andrebbe posta: si vuole educare i cittadini alla scienza, o farli diventare dei tecnocrati? E purtroppo, tra le nuove generazioni, non solo qui, ma anche in Italia, prevale sempre più un sapere funzionale, non una conoscenza fondamentale: chiedersi “a che serve? come funziona?”, è domanda ben diversa rispetto a chiedersi “che cos’è? che cosa significa?”…»

«E tuttavia la responsabilità di chi governa la scienza, e anche l’impegno delle società scientifiche, dovrebbe essere anche questo: dare più valore a questo tipo di domande. Sono forse domande meno utili in senso stretto. Ma senz’altro di inestimabile importanza»

 ***

 

Valerio Orlando è direttore del KAUST Environmental Epigenetics Research Program, Dopo un dottorato in Biologia Molecolare alla Sapienza di Roma (1989), ha lavorato per sette anni al Zentrum für Molekulare Biologie presso l’Università di Heidelberg (ZMBH). Ha iniziato la sua carriera indipendente al San Raffaele di Milano (1998). Dal 2002 ha diretto il laboratorio di Epigenetica e Riprogrammazione del Genoma presso il Dulbecco Telethon Institute (DTI) di Napoli e Roma.
È stato Presidente della Società Italiana di Biofisica e Biologia Molecolare (SIBBM, 2007-2013). Prima del trasferimento al KAUST nel 2013, è stato membro fondatore del Progetto Bandiera Epigenomica (EPIGEN). È membro eletto della European Molecular Biology Organisation (EMBO) e Cavaliere della Repubblica (2006).

 

 
European Institute of Oncology (IEO)
Post-Doctoral Fellow
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