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Quando la ricerca è made in Wall Street. The New York Stem Cell Foundation
by Luca Marelli
7 October 2016

Fondata nel 2005 con il supporto di alcuni tra i più importanti finanzieri di Wall Street, NYSCF è divenuta emblema del ruolo sempre più centrale della filantropia nel definire – e privatizzare – lo sviluppo di interi campi di ricerca.

Il contesto politico. È il 9 agosto 2001. Dal suo ranch di Crawford in Texas, George W. Bush annuncia, nel primo discorso televisivo da presidente rivolto alla nazione – prima che gli eventi dell’11 settembre spostassero il focus della sua amministrazione dalla bio– alla geo–politica – la de facto sospensione dei finanziamenti federali alla ricerca su cellule staminali embrionali. Con una decisione che definirà in maniera irreversibile il panorama della ricerca statunitense su cellule staminali.

«Più di 60 linee staminali embrionali sono già esistenti. Sono state create da embrioni che sono già stati distrutti, e hanno la capacità di rigenerarsi indefinitamente, creando continue possibilità per la ricerca. Sono giunto alla conclusione che dobbiamo consentire che i fondi federali siano utilizzati per la ricerca su queste linee già esistenti, per la quali la decisione sulla vita e sulla morte [dell’embrione] è già stata presa». Queste le parole con cui il neo-presidente – saldando il debito contratto con la destra religiosa, decisiva per la sua contestata elezione – precludeva la possibilità di derivare nuove linee staminali embrionali con fondi federali.

Nello specifico, la politica adottata dalla sua amministrazione stabiliva che, per ottenere finanziamenti pubblici, la ricerca avrebbe dovuto servirsi di linee cellulari staminali derivate, prima del 9 agosto 2001, da embrioni soprannumerari, creati per scopi riproduttivi e non di ricerca, e frutto di donazioni. Nel complesso, 71 linee cellulari derivate da 14 laboratori operanti in tutto il mondo (le cosiddette «linee presidenziali» catalogate in un registro apposito istituito presso il National Institute of Health) furono dichiarate elegibili per accedere ai fondi federali. Di queste, tuttavia, solo 21 furono considerate utilizzabili sperimentalmente dalla comunità scientifica.

Pur bloccando i finanziamenti federali, l’amministrazione Bush si caratterizzò tuttavia per l’adesione a una radicata tradizione libertaria, risalente agli anni ’70 e fatta propria anche dall’amministrazione Clinton, che prevedeva il mantenimento di un certo grado di libertà per la ricerca biomedica con embrioni e feti umani. Partendo dalla considerazione che l’assenza di un consenso politico sullo statuto ontologico e morale dell’embrione rendeva illegittimo tanto il divieto quanto il supporto con fondi pubblici della ricerca su cellule staminali di origine embrionale, la politica di Bush non pose infatti un divieto assoluto a tale linea di ricerca, e lasciò campo libero tanto a investitori privati quanto ai singoli stati.

Questi sviluppi tracciarono dunque, negli Stati Uniti, una doppia linea di demarcazione nella geografia politica della ricerca su cellule staminali: tra l’ambito pubblico e quello privato, e tra il governo federale e i singoli stati. Emblematico è il caso della California. Nel 2004 un referendum vinto a larga maggioranza rese infatti la ricerca sulle cellule staminali un diritto iscritto nella costituzione di questo stato. Ciò portò alla creazione di un’agenzia statale, il California Institute for Regenerative Medicine (CIRM), in grado di finanziare la ricerca su staminali con la somma monstre di 3 miliardi di dollari nell’arco di 10 anni.

Sulla scorta di questi sviluppi, il contesto statunitense fu dunque caratterizzato da un alto grado di sperimentazione in ambito di science policy: il vuoto creato dalla ritirata del governo federale (con il suo braccio operativo, l’NIH) nella direzione di un così importante campo di ricerca fu infatti immediatamente colmato tanto dai singoli stati quanto da centri di ricerca privati (sia accademici, che profit e no profit). Storicamente, erano questi attori comprimari, per lo più non avvezzi a svolgere un ruolo di primo piano nel definire la traiettoria di un intero campo di ricerca, e tuttavia ora chiamati a sviluppare innovativi modelli di governance in uno scenario privo del suo storico protagonista.

***

La New York Stem Cell Foundation. È in questo contesto, all’apice delle restrizioni ai finanziamenti federali – siamo nel 2005 – che la New York Stem Cell Foundation Research Institution (NYSCF) viene fondata come centro di ricerca no profit. Fondatrice, Chief Executive Officer (CEO) e dominus indiscusso dell’organizzazione è Susan Solomon, avvocato, venture capitalist e imprenditrice delle nuove tecnologie, nonchè figura di spicco della patient advocacy newyorchese.

Ed è proprio al contesto newyorchese, e alla sua prossimità geografica con l’epicentro della finanza mondiale a Wall Street, che NYSCF deve la sua fortuna. Facendo appello al suo esteso network professionale e ricorrendo a un’intensissima attività di raccolta fondi, condotta tra cocktail party e cene glamour con il gotha dell’alta finanza, Solomon è in grado, nel giro di 10 anni, di raccogliere più di 150 milioni di dollari di finanziamenti, facendo di NYSCF uno dei maggiori attori nella ricerca su staminali negli Stati Uniti. Da ricondurre al supporto di NYSCF sono, ad esempio, le pioneristiche ricerche di Dieter Egli sul Somatic Cell Nuclear Transfer (SCNT) e il trasferimento mitocondriale, o quelle del gruppo di Kevin Eggan dell’Harvard Stem Cell Institute su neuroni differenziati da cellule pluripotenti indotte derivati da pazienti affetti da SLA.

Forte di tali sovvenzioni, due sono stati, sin dalla fondazione, gli obiettivi chiave dell’organizzazione. Primo, sostenere un campo di ricerca, quello delle staminali, ritenuto in pericolo di sopravvivenza non solo la mancanza di finanziamenti, ma anche per il rischio che i più promettenti giovani ricercatori fossero scoraggiati dall’intraprendere una carriera in tale campo. Secondo, accelerare linee di ricerca di natura marcatamente traslazionale, fungendo da trait d’union tra la ricerca accademica e quella farmaceutica.

A tal fine, ricorrendo interamente a finanziamenti privati, NYSCF si è mossa in due direzioni parallele, finanziando progetti «high-risk, high-return» condotti da ricercatori esterni all’organizzazione, e creando una propria struttura di ricerca a Manhattan, un laboratorio «porto franco» per linee di ricerca eticamente e (soprattutto) politicamente controverse, che attualmente, in seguito a un investimento stimato in più di 30 milioni di dollari, ospita il primo sistema completamente robotizzato per la derivazione, cultura, e differenziamento di cellule staminali pluripotenti indotte (battezzato con il nome di Global Stem Cell Array).

Al pari del massiccio ricorso all’automazione, caratteristica peculiare che distingue NYSCF da ogni altro centro di ricerca nel campo delle staminali è l’adozione di un modello di governance basato sulla venture philanthropy. È, questo, un modello di donazione filantropica nato negli anni ’90, sulla scia del boom (poi rivelatosi bolla) delle dot-com, che si distanzia da modelli classici di filantropia per l’adozione di un approccio che prende a prestito pratiche e concetti di governance propri del venture capital, per trasferirli nel settore dell’innovazione no-profit.

Proprio attraverso la traduzione nell’ambito della ricerca scientifica dei riferimenti socio-culturali, delle categorie interpretative e delle pratiche dell’alta finanza e del venture capital, NYSCF si configura – in modo del tutto peculiare – come centro di ricerca finalizzato al perseguimento di un modello disruptive di innovazione, teso ad «accelerare» l’impatto della ricerca sulle cure attraverso una «rivoluzione» dei tradizionali approcci, sia scientifici che di governance, del campo delle staminali.

Come ben sintetizza il capo dello staff dell’organizzazione: «il nostro modello di governance, basato sul modello della venture philanthropy, è un modello accelerato, per così dire, ed è ciò che ci differenzia da altri centri di ricerca. Non dobbiamo fare ricorso ai finanziamenti federali, e siamo in grado di prendere decisioni velocemente, molto più velocemente rispetto a organizzazioni di tipo accademico con meccanismi più burocratici. Siamo molto veloci a identificare le aree in cui investire, ed effettuiamo gli investimenti in modo altrettanto rapido. E ciò è fondamentale per giungere più velocemente a nuove terapie».

Se pertanto, come ha scritto il sociologo tedesco Hartmut Rosa in alcuni saggi divenuti ormai dei classici della filosofia sociale contemporanea, le società della «tarda modernità» in cui viviamo sono interamente permeate da una logica dell’accelerazione, tanto dei ritmi di vita e dei mutamenti sociali quanto dello sviluppo tecnologico, NYSCF rappresenta un esempio emblematico dei profondi mutamenti che tale logica introduce nella pratica e nell’epistemologia della biomedicina contemporanea. E di come, sulla spinta dell’urgenza traslazionale, la ricerca si riveli sempre più permeabile ad interessi privati, e sottratta al controllo del decisore politico.

Come ha scritto Steven A. Edwards, analista presso l’American Association for the Advancement of Science, in un pezzo ripreso anche dal New York Times nel 2014, «in meglio o in peggio, la scienza del 21° secolo è guidata sempre meno da priorità nazionali o dalla peer review, e sempre più dalle preferenze di individui detentori di enormi quantità di ricchezze». Un vero e proprio cambio di paradigma nella pratica della ricerca scientifica i cui effetti più dirompenti, con tutta probabilità, sono ancora al di là da venire.

(A seguire: l'intervista con Valentina Fossati, PI NYSCF)

 
European Institute of Oncology (IEO)
Post-Doctoral Fellow
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