Sulla questione Technopole interviene la filosofa Roberta De Monticelli. Che argomenta: “Se si comincia a gettare sabbia negli ingranaggi della libera formazione delle coscienze, allora tutti i delicati meccanismi che promuovono il miglioramento degli individui vengono progressivamente ad incepparsi, e l’intera istituzione democratica comincia a degenerare”
Professoressa De Monticelli, la vicenda Human Technopole ha ormai assunto una notevole risonanza mediatica, sollevando questioni relative all’etica della ricerca scientifica, e al rapporto tra scienza e decisione politica. Sono queste problematiche assai rilevanti e che tuttavia hanno faticato a porsi al centro del dibattito della comunità scientifica italiana…
Non solo all’interno della comunità scientifica, ma anche tra umanisti. Quando feci il mio primo intervento al riguardo, nel tentativo di ottenere un endorsement da parte della mia facoltà rispetto alle questioni sollevate, tra gli altri, da Elena Cattaneo, non ho ottenuto nessun risultato. La prima domanda dei miei colleghi è stata: ma i medici e gli psicologi cosa ne pensano? Eppure la Cattaneo diceva cose a mio parere piuttosto ovvie per un filosofo, e predicate dalla maggior parte di noi a lezione un giorno sì e l’altro pure. Questioni riguardanti nozioni elementari di etica pubblica, come la trasparenza, la terzietà, la valutazione oggettiva.
Ecco, io penso questo: lo scarso interesse verso queste questioni è anche una sorta di pigrizia rispetto al ruolo dell’essere cittadini presenti, soggetti attivi di quel patto di civiltà, o quantomeno di cittadinanza, che caratterizza il nostro vivere associato.
Facciamo un passo indietro. Il progetto Technopole appare legato a doppio filo alla problematica della destinazione dell’area ex Expo. In questo scenario, la creazione di questo polo di ricerca sembra rispondere più a esigenze contingenti, che non a un piano articolato per il supporto e la valorizzazione della ricerca.
La questione Human Technopole è così intricata proprio per la molteplicità dei piani di discorso che coinvolge. E non è facile argomentare le proprie tesi, senza che tale posizione sia percepita come politicamente schierata in un senso o nell’altro. Cosa che di per sé non sarebbe peraltro da demonizzare, e che tuttavia si potrebbe avere l’ambizione di tenere distinta da discorsi più universali, riguardanti l’etica pubblica.
Ma la situazione che si è venuta a creare è tale che è difficilissimo trascurare questi aspetti pregressi. La questione dei terreni, acquistati da privati con ingenti investimenti pubblici, è effettivamente un problema non da poco per il dopo Expo. In particolare per la situazione che si potrebbe venire a creare a Milano, una situazione straordinariamente sgrammaticata da un punto di vista istituzionale, in cui la persona che per il comune di Milano dovrebbe chiedere ragione delle cospicue somme pubbliche versate, potrà essere la stessa persona che si troverà a risponderne per conto della società che ha gestito Expo. Già di per sé, ciò confonde enormemente le carte in tavola, perché impedisce di ragionare limpidamente sul destino del dopo Expo e sulla proposta, avanzata dal governo, di valorizzare in tale sede la ricerca scientifica attraverso la creazione di questo polo scientifico-tecnologico.
Nel dibattito che si è sviluppato c’è una duplice questione che è passata totalmente sotto traccia, e che riguarda, al di là delle specificità del progetto Technopole, la legittimità di un investimento di tale portata (150 milioni di euro l’anno per 10 anni) nell’ambito della ricerca di area biomedica. A una filosofa, vorrei rivolgere questa provocazione: è giusto, soprattutto in tempi di (perduranti) politiche di austerity, destinare queste ingenti risorse proprio alla ricerca, e non indirizzarle verso destinazioni di maggiore e più immediata utilità sociale? In secondo luogo, e di converso: perché prediligere proprio tale ambito di ricerca, e non altri in cui i finanziamenti sono assai più carenti, perché percepiti come meno ‘utili’, come ad esempio la stessa ricerca filosofica?
Rispetto alla questione più generale, dal momento che ben sappiamo che il livello del finanziamento della ricerca in Italia è desolatamente basso, ritengo che la mossa del governo possa essere apprezzabile. Ci sono però delle qualifiche: si dovrebbe infatti ricorrere a risorse ulteriori, e non a risorse sottratte ai finanziamenti complessivi alla ricerca. E si pone poi la questione che sottolineava in uno dei suoi primi interventi Giovanni Bignami: è davvero sorprendente come un Presidente del Consiglio scavalchi un ministro, e le strutture ministeriali deputate alla ricerca, senza che questo ministro, che in qualsiasi altro paese darebbe le dimissioni, neppure batta ciglio. Per rispondere quindi alla prima domanda: a queste condizioni, che ritengo però ben lungi dall’essere soddisfatte, un’iniziativa top-down che riguardi la ricerca scientifica credo possa essere, in una situazione come la nostra, apprezzabile.
Riguardo alla seconda domanda, ritengo si possa argomentare a favore di uno sforzo finanziario particolare che supporti l’area biomedica, anche a fronte della portata e delle ricadute tecnologiche, e quindi poi sanitarie, di questo tipo di ricerca. Naturalmente, servirebbe poi un’analisi più approfondita, che analizzi il modo in cui le risorse sono ripartite in Italia tra i vari ambiti di ricerca. Analisi che però andrebbe oltre le mie competenze.
A ciò vorrei però aggiungere un’altra considerazione, che a mio parere è quella di fondo. Guai a decidere ciò che va finanziato soltanto in base alle ricadute tecnologiche. Guai a contrapporre le esigenze sociali alla questione, che sarebbe invece un lusso, del vero e del bello. Il vero e il bello, infatti, sono elementi costitutivi del giusto. Una delle questioni che noi filosofi siamo stati meno bravi a ribadire è che il bisogno di verità – anche nel senso, espresso dalla ricerca scientifica, di andare oltre il noto, mettendo in atto percorsi di ristrutturazione dei nostri paradigmi culturali – è il livello più alto del bisogno di giustizia.
Dobbiamo smettere di pensare che la giustizia, e in particolare la giustizia sociale, riguardi solo la mera sussistenza. Un buon welfare e un buon sistema sanitario sono una delle condizioni sine qua non perché le vite fioriscano. Ma è questione riguardante la giustizia anche il fine per il quale il welfare esiste, ciò che rende una vita umana degna di questo nome, come ad esempio l’apertura delle menti resa possibile dall’avventura della ricerca. E dico proprio ricerca: non il possesso della verità, ma il continuo ricercarla e tendere ad essa. Ritengo che l’esistenza di uno spazio di ricerca della verità indipendente da tutte le forze in gioco, in primis quelle politiche, sia un interesse fondamentale e predominante per ogni soggetto morale umano, per ogni persona libera ed autonoma.
Riguardo alla ricerca biomedica: il finanziamento a Technopole si potrebbe dunque giustificare, dal punto di vista teorico, in due direzioni: certo le ricadute tecnologico-sanitarie del progetto, ma anche la dirompente novità delle scoperte che oggi vengono compiute in quella sfera della ricerca cognitiva. Sulla base di questi due elementi si potrebbe quindi mantenere una posizione di benevola attesa. E poi però si aprono anche le altre questioni.
Questioni, sulle quali lei si è già espressa altrove, relative alle specifiche modalità di concepimento e realizzazione del progetto Technopole. Su quale aspetto si appuntano le sue critiche?
Proviamo ad allargare il discorso: la ricerca di verità non avviene unicamente all’interno delle singole scienze, ma vi sono anche, all’interno di una società democratica, tre fondamentali agenzie di verità: l’istruzione, l’informazione, la magistratura. Esse sono necessarie affinché una democrazia possa sussistere.
Quanto all’istruzione, per esperienza storica sappiamo che essa non si regge in piedi senza un forte livello della ricerca. E la ricerca a sua volta non sta in piedi – e qui veramente arriviamo al cuore della questione – senza una vera e propria attitudine di tutti i componenti della comunità scientifica a rifiutare le logiche corporative e consortili che sono purtroppo in uso nella maggior parte delle università italiane, per aprire davvero un capitolo nuovo. Abbiamo visto cosa succede a procedere per phone calls invece che public calls. Succede che cade quella linea importantissima di indipendenza della ricerca dalla politica, di questo settore della ricerca di verità rispetto alla forza che la vorrebbe inglobare, e senza questa indipendenza prima o poi, senza alcun dubbio, la ricerca decade.
A volte alcuni colleghi vengono a dirti che all’istituto tal dei tali sono bravi, hanno buoni risultati, hanno criteri interni funzionanti. Io rispondo: questo può essere vero oggi, ammesso che lo sia, ma è destinato a non essere più vero domani nella misura in cui si instaura un circolo vizioso. Le democrazie funzionano per circoli virtuosi o viziosi. Se si instaura un circolo vizioso, se si comincia a gettare sabbia negli ingranaggi della libera formazione delle coscienze, allora tutti i delicati meccanismi che promuovono il miglioramento degli individui vengono progressivamente ad incepparsi, e l’intera istituzione democratica comincia a degenerare.
Nel momento in cui si decide di investire in una particolare area di ricerca in vista dell’ottenimento di risultati socialmente desiderabili, anche adottando il modello di governance più trasparente e indipendente possibile, resta tuttavia aperta la questione: non si privilegia per ciò stesso un modello di ricerca finalizzato a una ‘chiusura’ dell’orizzonte del possibile, piuttosto che ad una sua ‘apertura’ e libera esplorazione?
Questo è uno dei sensi della domanda rivolta al Presidente del Consiglio di mettere sul terreno della competizione anche i contenuti parziali del progetto. Di modo che la componente utilitaria possa essere bilanciata dalla componente di apertura, di avventura cognitiva, di creatività e innovazione concettuale. E questo nessuna istituzione può impartirlo dall’alto. Lasciamo crescere mille fiori, e vedremo quali fioriranno. Finanziare ricerca non significa finanziare necessariamente risultati. Ma tentativi. Pur all’interno di un’area che si possa identificare di rilevanza nazionale, gli aspetti cognitivamente interessanti possono essere assolutamente i più vari: ecco perché ritengo che l’errore di fondo del progetto sia stato proprio non approntare l’occasione di una vera “fioritura di progetti”.
In conclusione, le vorrei chiedere: come tradurre in prassi concrete quanto lei va argomentando?
L’appello “salviamo la ricerca” di Giorgio Parisi sulla piattaforma change.org ha avuto più di 70.000 adesioni. I nostri più modesti appelli hanno suscitato tre esiti interessanti: migliaia di contatti, centocinquanta adesioni, e una discussione interna tra umanisti e scienziati. La lettera dei membri italiani dell’EMBO ha anche ottenuto ascolto da parte del ministro. E anche lì sarà molto importante che chi andrà a parlare con il ministro non ceda alla logica della cooptazione.
Perché questo, in ultima analisi, è il senso di ciò che vado dicendo. A fronte dell’incapacità apparente dei politici di contribuire al rinnovamento della nostra democrazia, che cosa resta? Restiamo noi. Noi cittadini, in particolare scienziati, ricercatori, umanisti, con professioni che hanno a che fare con la ricerca e con la conoscenza. Perché questo appiattimento dell’ideale sul reale, del diritto sul potere, della norma sul fatto, ha una sua linea di cedimento, che è la nostra coscienza. Non ci sono istituzioni che prevengano questo cedimento, e l’abitudine di saltare sul carro del vincitore. Da qui il valore degli appelli nel risvegliare le coscienze. Anche quando sembrano inascoltati.
Roberta De Monticelli insegna Filosofia della persona all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, presso la quale dirige il Centro di ricerca in Fenomenologia e Scienze della Persona (PERSONA), di cui è espressione aperta il sito Phenomenologylab. Autrice di numerosi volumi e saggi pubblicati su riviste nazionali e straniere, nel 2012 ha ricevuto il Premio Art.3 "per il suo quotidiano impegno di testimone attivo ed autorevole dei valori civili e morali che spettano, senza compromessi, eccezioni o sospensioni, all'uomo".