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Human Technopole tra scienza e politica
by Luca Marelli
28 April 2016

A novembre 2015, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato il lancio del progetto Human Technopole Italy 2040, per la creazione di un polo scientifico-tecnologico, nell’area ex Expo a Milano, dedicato all’integrazione di genomica, epigenomica e big data per lo sviluppo di nuovi approcci personalizzati in ambito medico e nutrizionale.

Tale annuncio ha dato avvio – fatto non scontato – a un intenso dibattito a mezzo stampa sulle politiche della scienza nel nostro Paese.

Per i sostenitori di Technopole, sono i variegati benefici sociali del progetto, e l’urgenza del loro perseguimento, a rappresentare il criterio di legittimazione, rispettivamente, per la decisione di investire una quantità ingente di risorse pubbliche in un polo scientifico-tecnologico di tale portata, e per il modello di governance adottato, basato sulla regia dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT). Technopole, in tale ottica, rappresenterebbe non solo l’approccio big science in grado di “collocare l’Italia al passo degli altri grandi paesi” nell’ambito delle scienze della vita, consentendo al nostro Paese di “competere sulla scena europea ed extraeuropea” e di acquisire leadership e prestigio internazionale. Contestualmente, esso permetterebbe di realizzare, nelle parole dell’ex ministro Umberto Veronesi, quelle “economie di scala” necessarie a sostenere un approccio di precision medicine, basato sull’integrazione di dati genomici, epigenomici e relativi agli stili di vita, funzionale allo sviluppo di metodi innovativi di prevenzione e cura.

Ed è l’urgenza di tali questioni – relative al ruolo dell’Italia nella bioeconomia globale, e ai costi personali e sociali di un insieme di bisogni medici inevasi – a legittimare, secondo i sostenitori del progetto, il paradigma efficientista propugnato dal governo e dal direttore di IIT Roberto Cingolani in relazione alla governance del nuovo polo di ricerca, con il ruolo centrale di IIT e la scelta discrezionale di alcuni esperti di alto profilo nella redazione del progetto (il “fate presto”, in Italia ma non solo, ultimamente è molto in voga).

Di contro, per i critici del progetto, a partire dalla senatrice a vita Elena Cattaneo, sono ragioni relative allo statuto etico della ricerca scientifica stessa a richiedere un cambiamento di rotta. Oltre a denunciare uno squilibrio evidente tra le risorse pubbliche previste per Technopole (150 milioni di euro l’anno per un arco temporale di dieci anni) e quelle destinate al resto dell’intero sistema-ricerca italiano (91 milioni di euro l’anno), le critiche si sono per lo più appuntate sulla mancanza di una valutazione indipendente del progetto, denunciando la “corruzione dell’etica della scienza” generata dalla commistione scienza-politica derivante dal modello di governance top-down adottato (in cui spicca l’assenza di una previa peer review comparativa di differenti progetti e contenuti).

L’appello alla separazione di scienza e politica trova particolare enfasi nella lettera di alcuni scienziati italiani operanti in centri di ricerca esteri (che vanno da Harvard al Kaust saudita), pubblicata sul Sole 24 Ore del 20 marzo 2016. In essa, richiamandosi al cosiddetto principio di Haldane, si argomenta che “l’entità del finanziamento erogato richiederebbe un ampio coinvolgimento della comunità scientifica nella discussione preventiva dei temi e degli obiettivi a medio e lungo termine, e procedure a bando pubblico che comportino una selezione terza, indipendente e competente dei contenuti e dei progetti migliori per Ht”. “I processi di selezione della scienza pubblica – continuano i firmatari dell’appello – non possono essere invasi dalla politica né essere decisi da un singolo ente”.

***

Sono, queste, tensioni carsiche – giunte in superficie nel nostro Paese proprio a partire dal caso Technopole – che hanno attraversato il dibattito, almeno a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, in tutti i maggiori paesi avanzati e in via di sviluppo.

Due modelli di governance scientifica hanno in particolare, e a costo di qualche semplificazione, dominato la scena europea e statunitense in tale lasso di tempo.

Da un lato, il richiamo all’autonomia della scienza nei confronti della sfera politica ha rappresentato il cardine attorno a cui si è strutturato quel “contratto sociale” regolante i rapporti scienza-società, predominante in Occidente a partire dal secondo dopoguerra, per il quale compito della politica è supportare economicamente la ricerca scientifica, ma non stabilirne direzione e modalità di funzionamento.

Dall’altro lato, a partire dagli stessi avanzamenti delle biotecnologie negli anni ’70 (si pensi all’avvento del DNA ricombinante), e dalla simultanea crisi del modello fordista di produzione di massa, con la conseguente ricerca di nuovi modelli di sviluppo e crescita economica, l’incremento della produttività (sociale ed economica) delle scienze della vita è ciò che, da un lato, ha garantito ad esse una legittimazione sociale e un autorità culturale egemone nella sfera pubblica, mettendo tuttavia in crisi, dall’altro lato, quel modello di autonomia tanto caro alla stessa comunità scientifica. É infatti a partire da tale esigenza di maggiore produttività e impatto sociale che la ricerca scientifica d’avanguardia si è aperta a nuovi modelli organizzativi e di governance – i cui esempi, in Europa come nel resto del mondo, abbondano – sottoposti a un maggiore interventismo da parte del potere politico e di stakeholder quali industria, associazioni di pazienti o istituzioni filantropiche.

E tuttavia, ciò che il caso Technopole mette in luce è come tali paradigmi risultino, allo stato attuale, entrambi problematici.

Nel primo caso, l’autonomia avocata a sé da (parte) della comunità biomedica rappresenta un eccezionalismo rispetto ad altri campi di intervento pubblico, in termini di accountability con il legislatore, che parrebbe ingiustificato alla luce degli ingenti investimenti pubblici e aspettative sociali riposti nella ricerca scientifica. Il supporto pubblico alla ricerca biomedica d’avanguardia è infatti intrinsecamente legato alla promessa, di per sé intangibile, di benefici sociali che potranno divenire tangibili unicamente in un futuro a venire.

Con ciò, si tratta parallelamente di riconoscere come la “commistione” tra scienza e politica (intesa, nel suo senso più alto, come ambito di mediazione tra diversi interessi e rappresentazione del bene collettivo) sia già da sempre in atto, dal momento che la stessa prospettiva che presenta scienza e politica come ambiti separati (il primo riguardante i “fatti”, il secondo i “valori”), è socialmente legittimata dall’assunto secondo il quale l’autonomia della scienza sia funzionale alla produzione di benefici sociali.

D’altro canto, il secondo modello appare anch’esso permeato da contraddizioni. La crescente enfasi posta sull’accelerazione della traslazione delle scoperte scientifiche in risultati terapeutici (e commerciali) tangibili, e lo sviluppo di modelli di governance della scienza a ciò funzionali (di cui Technopole rappresenta un esempio), sembra infatti condurre, come non hanno mancato di osservare i critici del progetto, a un profondo mutamento nell’etica della scienza. Intendendo con “etica” non tanto l’ambito della moralità privata, ma quei valori epistemici che, nel (ri)definire ciò che è “buona scienza” e le modalità del suo perseguimento, indirizzano in modo determinante l’attività della ricerca scientifica stessa.

Ridefinire tali valori nell’ottica big science ed efficientista di Technopole può condurre allora a una duplice problematica. Da un lato, portare a trascurare ambiti e modalità di ricerca considerati (da chi?) meno glamour, produttivi, o socialmente legittimabili. Dall’altro, adottare modelli di governance che, nel precludere una reale partecipazione della comunità scientifica nel suo complesso, attraverso bandi aperti e pubblici, rischiano di non avvalersi di competenze preziose per la riuscita degli stessi obiettivi prefissati.

Con ciò, e come suggerito in una recentissima lettera-appello al Presidente del Consiglio, firmata da alcune tra le voci più autorevoli della comunità della ricerca biomedica italiana, appare evidente come la questione di Technopole possa rappresentare un utile momento di dibattito per cercare di rispondere, e provare a ridefinire in maniera collettiva, tanto le priorità sia scientifiche che sociali della ricerca biomedica d’avanguardia, quanto la relazione tra scienza e politica nel nostro Paese. E ciò nel riconoscimento del legame profondo che tiene insieme, strutturalmente, questi due ambiti.

 
European Institute of Oncology (IEO)
Post-Doctoral Fellow
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